Qliphot: alla Sinistra di Dio
- Hekatean J.
- 5 mar 2018
- Tempo di lettura: 13 min

di Emeth, per gentile concessione di NexusArcanum
Anticosmiche, oscure, emanazioni sinistre di un Assoluto altrimenti troppo luminoso per reggersi su se stesso: di Qliphot si parla poco e niente, e spesso chi lo fa non ha le idee molto chiare riguardo a questo argomento che nella letteratura esoterica trova tanto seguito, quanto scarsi riferimenti classici. La Qabalah ebraica, dottrina mistica per eccellenza, le cita di sfuggita, come “gusci” o “scarti della creazione” (il termine singolare qlipha deriva infatti dall’ebraico kelipah [→ kelipott] che significa appunto “guscio” o “scarto”), e non dà loro né spazio né rilevanza, considerandole soltanto un effetto collaterale che sporca una Creazione altrimenti intrinsecamente pura.
La mistica ebraica non le ritiene fondamentali ai fini dell’evoluzione dell’anima e, dunque, prima di trovarle citate in testi esoterici che propongano di operare con esse, bisogna aspettare fino all’Ottocento, con Dogma e Rituale dell’Alta Magia di Eliphas Levi – il primo, di fatti, a portare le Qliphot alla vista della Tradizione Magica Occidentale e ad assegnare a esse gli Undici Arcidemoni che le governano.
Non si parla molto di Qliphot perciò, perché l’argomento è scarsamente documentato e taciuto nella letteratura qabalistica. Al contempo, diversi ordini esoterici, dall’Ottocento a oggi, le hanno incluse nei propri insegnamenti, dando un forte impulso al loro studio. Ora sono un argomento sempre più approfondito e apprezzato nelle Vie di Mano Sinistra, per il supporto che offrono alle idee e ai motivi che inducono un numero crescente di persone a ribellarsi alle convenzioni imposte da società e da religioni i cui dogmi non sono più al passo con i tempi. Ma c’è un abisso che divide le Qliphot rese vessillo delle Vie di Mano Sinistra, dalla reale comprensione del loro ruolo nella magia anticosmica e nella mistica ebraica (dove sono incarnazione di un Male a tratti necessario, razionale o ingiustificato, ma sempre e comunque assoluto e caotico).
Alla luce di quanto sopra, e di quanto scriveremo in seguito, è bene ricordare chesoltanto un praticante esperto e ben informato dovrebbe approcciarsi alle Qliphot, tenendo a mente che la disinformazione o la condivisione di metodi ed esperienze che riguardano energie così distruttive può arrecare danno ai meno esperti. Proprio per questo motivo, l’articolo si propone di essere soltanto informativo e introduttivo all’argomento dal punto di vista storico e teorico, e non offrirà alcuno slancio pratico verso un percorso qliphotico.
Antinomico o anticosmico?

In una Italia che sta andando radicalizzandosi, abbracciando con sempre più convinzione alcuni movimenti esoterici estremi, per capire le Qliphot è necessario fare un passo indietro e distinguere per prima cosa fra “antinomico” e “anticosmico”. Benché queste parole vengano generalmente usate per definire una tradizione occulta di tipo “sinistro”, cioè d’opposizione rispetto all’ortoprassi comunemente accettata attraverso il dogma religioso e sociale, si tratta di due livelli ben diversi di opposizione e manifestazione del Caos.
Da un lato, “antinomico” implica, semplicemente, il porsi in antitesi all’interno di tutto ciò che è creato: causa-effetto vengono sovvertite per abbracciare una acausalità dalla quale portare il Caos nell’Ordine, per ribaltare le strutture sociali, gerarchiche, culturali, e poi rivoluzionare. Si tratta di prendere il Caos dal quale l’Ordine è derivato, e far sì che dall’Ordine derivi il Caos. Si ribalta, dunque, il motto del 33° grado della Massoneria: Ordo ab Chao, promulgando invece Chao ab Ordo. L’essere antinomico è quindi un individuo in rottura con tutto ciò che è stabilito, alla ricerca di una sovversione dalla quale possa scaturire una nuova evoluzione: soltanto distruggendo si può tornare alla materia (spirituale, fisica) informe dalla quale trarre nuove Forme, nuove Forze.
Per contro, “anticosmico” trascende questa semplice ricerca di Caos all’interno dell’Ordine. La mira è più ampia: riconsegnare l’intera creazione al Caos Primordiale, perché infine l’Essere possa tornare in se stesso, indifferenziato al suo interno e, dunque, Assoluto. Da un lato si può definire questa filosofia come “dualismo anticosmico”, rifacendosi non solo agli gnostici, ma anche ai manichei e allo zoroastrismo, per i quali la materia, illusoria per sua natura e dunque “malvagia” (perché non vera), è da disgregare per liberare lo Spirito, permetterne la massima espressione e il ricongiungimento con l’Assoluto. Da qui deriva la dicitura, adottata da alcune correnti, di “chaognosticismo anticosmico”, che evolve la base tradizionale dello Gnosticismo adeguandola a una visione più moderna e, a tratti, ovviamente piegandola alle necessità contemporanee.
Il paradosso: può il male originarsi da un Dio assolutamente buono?

Prima dell’Ottocento e degli scritti di Eliphas Levi, le Qliphot vengono limitatamente trattate da Isaac Luria, noto rabbino, mistico e qabalista nato a Gerusalemme nel 1534. Come molti altri ebrei, la sua visione del mondo venne fortemente influenzata dagli effetti dell’Editto di Granada del 1492, promulgato dai sovrani spagnoli Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona sotto l’influenza dell’Inquisizione, di cui entrambi erano ferventi sostenitori. Con tale Editto, gli ebrei spagnoli erano stati cacciati dal Regno di Spagna, costretti a un’ennesima diaspora che aveva riaperto nel cuore del popolo, e della mistica, una ferita antica, alla quale la dottrina ancora non offriva una risposta soddisfacente: perché se il Dio del Popolo d’Israele tanto amava i suoi figli, permetteva che essi venissero perseguitati, secolo dopo secolo, ed emarginati, scacciati, uccisi, e non li rendeva invece apprezzati per la finezza della loro cultura mistica e religiosa? Perché e come da un Dio misericordioso si origina il Male?
Proprio il problema dell’origine del male fu per Luria uno stimolo, che lo indusse a un ampliamento della propria visione mistica per spiegarne la nascita in modo non paradossale. Così le Qliphot divennero per il rabbino lo strumento attraverso il quale il dolore, il pianto, la malattia, la persecuzione, il male in ogni sua forma, penetra nella Creazione infrangendone la perfezione e costringendo l’Umanità ad affannarsi per ritrovare il Divino dentro se stessa e nel mondo circostante.
Lo Tzim-Tzum, la Schebirath ha-Kelim e la Tikkun

La mistica lurianica basa la propria cosmogonia sullo Tzim-tzum, cioè sul processo progressivo di limitazione di un Divino Assoluto che per ri-conoscersi e manifestarsi ha bisogno di limitare sé stesso. All’origine di tutto, il Divino contrasse se stesso in un punto che circondò di vuoto, creando così una prima distinzione, attraverso la quale si manifestò come raggio di luce. Più il raggio si allontanava dalla fonte, più il suo potere veniva progressivamente velato e ridotto, in stadi successivi. Egli creò dunque dei “vasi”, che potessero contenere questo raggio di luce (degli spazi metafisici delimitati, che potessero essere saturati del suo potere, rendendolo più chiaramente percepibile e comprensibile agli esseri che sarebbero stati creati in seguito). Questi vasi sono le Sefiroth (singolare Sefirah), cioè le “emanazioni” – dalla radice ebraica SFR, comune ad altre parole, unite così in un’unica area semantica esaustiva del significato intrinseco di questo concetto: sefar (computo), sefer (scrittura), sippur (discorso).
Quattro vasi accolsero la luce divina, ma il quinto, si ruppe. La Sefirah Geburah, la Severità, la potenza della disgregazione, non riuscì a contenere la purezza della luce divina e, infrangendosi, si trasformò in un eccesso, dal quale si originò il male primordiale. I suoi cocci precipitarono nel vuoto, caddero corrompendosi nell’Abisso Primordiale (il vuoto di cui Dio si era circondato per potersi manifestare), divennero le Qliphot e si organizzarono in modo speculare alle Sefiroth, in un Albero della Morte (Sitra Ahra), piuttosto che in un Albero della Vita (Etz Hayim).
La rottura dei vasi, chiamata Schebirath ha-Kelim, è un tratto distintivo della mistica lurianica, che riconosce nei vasi che non sono riusciti a reggere l’impatto con il potere divino, la prima origine e ragione dell’esistenza del Male. Tuttavia, poiché nei frammenti precipitati nel vuoto primordiale doveva comunque essere presente una scintilla divina (poiché anch’esse creati da Dio),Luria introdusse anche il concetto di Tikkun, cioè il recupero di tale scintilla perché possa essere purificata, innalzata e ricongiunta al Divino – riparando, in questo modo, alla separazione originaria per ridare alla Creazione una continuità assoluta.
Sitra Ahra ed El-Acher

Così come le Sefiroth, le emanazioni “luminose”, sono organizzate in un percorso chiamato Etz Hayim (Albero della Vita), rappresentato come albero o come un insieme di cerchi concentrici, così le Qliphot, le emanazioni “oscure”, sono rappresentate attraverso Sitra Ahra.
Poiché le une sono lo specchio delle altre, così Etz Hayim e Sitra Ahra sono speculari, talvolta rappresentati uno sovrapposto all’altro o uniti alla base, sviluppandosi il primo in altezza, verso il cielo e l’Iperuranio, e il secondo in profondità, verso la terra e l’Infernus. Dion Fortune ne La Cabala Mistica, esemplifica in modo efficace la specularità di Sefiroth e Qliphot, spiegandole come due metà di una stessa sfera, sulla cui superficie si muove un immaginario pendolo che rappresenta la forza associata a ogni emanazione: gli eccessi, in positivo o in negativo, muovono il pendolo in una delle due metà, facendolo sconfinare ora nella parte sefirothica, ora in quella qliphotica: è dunque soltanto l’equilibrio a permettere di mantenersi centrati in una delle due parti.
Così come le Sefiroth sono associate ai diversi ordini angelici (gli angeli sono infatti messaggeri e “personificazioni” del Divino), così le Qliphot sono state associate, dall’Ottocento, ad entità demoniache: Undici Arcidemoni le governano (a Thaumiel sono associate due entità) come Signori di Sitra Ahra, l’Altra Parte. Anche prima di Levi, le Qliphot erano considerate governate dafigure non-divine, secondo il canone ebraico, complessivamente definite El-Acher, cioè “gli altri Dei” in riferimento a divinità estranee, esterne alla dottrina e alla teologia ebraica, considerate demoni tanto nelle letterature ebraiche canoniche ed apocrife. D’altra parte, la “demonizzazione” di divinità estranee a un gruppo religioso ed etnico, è un passo comune a tutti i popoli nella loro ricerca di una più stabile e forte identità culturale – e il rifiuto di divinità, pratiche magiche e religiose estranee, appartenenti alle aree confinanti, costituisce per tale scopo un passaggio obbligato, e il più logico da compiere per esaltare il proprio credo e la propria storia.
Soprattutto nella Tradizione Anticosmica, El-Acher viene anche reso come “gli Dei Alieni”, ovvero undici aspetti di un’unica entità, riprendendo così il modello dello Gnosticismo del I sec., che contrapponeva al Demiurgo un Dio Alieno, che nulla ha creato, la cui natura è completamente trans-mondana, anti-cosmica, cioè estranea al Cosmo, inteso come interezza del creato, che non governa e al quale è in completa antitesi. Le undici emanazioni che compongono El-Acher, cioè gli Undici Signori di Sitra Ahra, si localizzano dunque in quell’Abisso Primordiale in cui non esiste niente di creato, dove le Forze si aggregano in Forme sempre mutevoli, ma sempre antitetiche rispetto a quelle del Cosmo, alle quali si oppongono per disgregare la creazione e riportarla a quell’origine da cui tutto è scaturito.
Il veleno oscuro

Le Vie di Mano Sinistra, in inglese Left-Hand Path, e in particolare le Qliphot, sono associate al concetto di “sinistro”, tradotto dall’inglese “sinister”. Purtroppo, in Italiano perdiamo buona parte dell’area semantica del termine sinister, che per prima cosa indica qualcosa di pericoloso e malevolo, e solo in seconda battuta si riferisce a ciò che sta fisicamente a sinistra. Nella nostra lingua, invece, sinistro ha come prima accezione ciò che sta a sinistra, poi qualcosa di criminoso e soltanto infine fa riferimento all’antica credenza per cui da “sinistra” provengono il male e il pericolo. Questa inversione di livelli di significato determina purtroppo una parziale decontestualizzazione del reale significato di “Vie di Mano Sinistra”.L’aggettivo inglese “sinister” racchiude però la pienezza delle sfaccettature delle Qliphot, la cui natura è sinistra per eccellenza, cioè oscura, antinomica, anticosmica, contrapposta (spesso in modo violento) a tutto ciò che è invece “destro” (in inglese “right”), cioè giusto, corretto, auspicabile. Sulle Qliphot come energie antinomiche è stato scritto molto, e capito poco. La tendenza è di considerarle soltanto forze distruttive e caotiche, in opposizione alla creazione e all’ordine, dimenticando che è nella dissoluzione dei legami fra le cose che risiede la possibilità di formarne di nuove, più affini alla propria visione metafisica. “Antinomico” assume così una molteplicità di significati. Il primo è indubbiamente la necessità, per chi pratica Vie di Mano Sinistra e segue percorsi qliphotici, di rompere spiritualmente, mentalmente e socialmente con le regole imposte dal vecchio Eone magico (dominato dalle Vie di Mano Destra, dal loro dogma prevaricante e assolutista, che dà poco spazio alla libera espressione personale). Il secondo è invece il senso cosmico, o cosmogonico, che contrappone all’ordine e alla creazione, il caos e la distruzione, forze antitetiche la cui tensione costante genera il tempo e mantiene la Manifestazione a una condizione di equilibrio: la ricerca dell’anti-cosmo diviene perciò la ricerca di un tempo senza tempo, che trascenda sia la ciclicità che la relatività, attraverso la distruzione del Creato.
Non perché le Vie di Mano Destra, tradizionalmente associate a tutto ciò che è luminoso, siano una delusione per i molti che le abbandonano cercando qualcosa di diverso, allora è corretto definire oscure le Qliphot (portanti nelle Vie di Mano Sinistra). Lo sono, è ovvio, ma non per la ragione che normalmente viene riportata. Oscurità e luce esistono, in porzioni diverse, in ogni Sefirah e in ogni Qlipha, ma è oscuro il contesto in cui è inserito l’intero Sitra Ahra. Se il Divino si manifesta come un raggio di luce, che colma le Sefiroth durante lo Tzim-tzum, e le Qliphot cadono nel vuoto che serve da sfondo per permettere la visione della luce divina, è ovvio ritenere che Sitra Ahra sia completamente immerso nella tenebra. Quella, appunto, del Abisso Primordiale, dove la luce divina non brilla. Oscurità diviene quindi assenza di luce, di ordine, di purezza, e di conseguenza sembiante del veleno qliphotico.
Il veleno delle Qliphot, talvolta associato al Serpente tentatore che corrompe Eva nell’Eden, e prima ancora feconda Lilith sotto forma di Samael, si inserisce in questo contesto come un elemento di rottura rispetto alla quotidianità. Di fatti, l’avvelenamento rappresenta uno stato alterato dell’organismo, che coinvolge diverse sfere della persona (la sua mente, ma anche il suo corpo), permettendole di sperimentare l’antinomia, cioè la dissoluzione del dogma sociale quotidianamente vissuto, e di fare esperienza dell’a-normalità. Il veleno del Serpente dell’Eden non è, ovviamente, soltanto qualcosa di fisico, inteso come sostanza tossica, ma ancor più qualcosa di metafisico: la Conoscenza, che permette al mago, all’adepto e soprattutto all’Iniziato, di acquisire una visione della realtà che sia critica, non dogmatica e non bloccata al solo mondo visibile – ma che le trascenda tutte, per permettergli di sperimentare sulla propria pelle i poteri, creativi e distruttivi, che sorreggono l’intero Universo.
Sabbatai Zevi

Il periodo che va dalla fine del XV sec. all’inizio del XVIII fu, per la mistica ebraica, un periodo di continue agitazioni e cambiamenti. Prima il decreto di Granada e la cacciata dalla Spagna nel 1492, operata per volere dei cristianissimi sovrani spagnoli Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragna. Poi l’ennesima diaspora attraverso l’Europa, che mise nuovamente in discussione il tema del “male”, così sentito da parte del popolo ebraico e così inconciliabile con l’idea di un Dio perfetto e misericordioso.
Proprio la ridiscussione del ruolo del Male nella mistica e nell’“anatomia” divina, indusse Isaac Luria e Moses Cordovero a raccogliere nei propri testi buona parte del sapere tradizionale legato al male, alle figure di Samael, Lilith e Tanin’iver, e rianalizzarle secondo un modello di pensiero meno popolare e più colto. Da ciò scaturirono non solo grandi riflessioni riguardo al ruolo cosmico del Male, ma soprattutto i primi sistemi davvero organizzati di analisi e speculazione sulle Qliphot, non più viste solo come “scarti” della Creazione, ma anche come scintille cadute organizzate in una precisa gerarchia.
A Etz Hayim, l’Albero della Vita, organizzato in Dieci Sefiroth, iniziò dunque a essere contrapposto Sitra Ahra, l’Altra Parte, l’Albero della Morte, organizzato in Dieci Qliphot. Seppur inizialmente priva di attributi morali, questa specularità andò successivamente a simboleggiare l’opposizione fra il Bene cosmico, quella forza aggregativa e positiva che porta in sé un movimento evolutivo; e il Male cosmico, visto come una forza disgregativa e negativa, motivo di contrazione e ripiegamento. Pur se le Qliphot restano quei “gusci vuoti”, quegli “scarti” che la mistica ebraica ha sempre rifuggito, in essi però viene riconosciuta un’essenza divina che, troppo pura, ha mandato il frantumi il contenitore che doveva accoglierla, ma che permane come sfaccettatura di un Divino che, essendo pura perfezione, assoluta e trascendente, contiene in sé ogni cosa, il Bene così come il Male.
Su queste idee si evolve, da metà del XVI sec., la mistica eretica di Sabbatai Zevi e Nathan di Gaza, personaggi quanto mai rilevanti nella storia dell’ebraismo, ma poco conosciuti, anche da molti praticanti delle Vie di Mano Sinistra, che ignorano come buona parte delle idee che ruotano attorno alla moderna Qabalah Qliphotica siano da imputarsi proprio alla loro apostasia.
Sabbatai Zevi, l’ebreo errante, cabalista, mistico e poi eretico agitatore politico; ebreo ultra-ortodosso, apostata e infine musulmano. Una figura difficile da inquadrare, che si proclamò Messia nel 1648 che, secondo alcune interpretazioni contestate dello Zohar avrebbe dovuto essere l’anno della redenzione. Il suo gesto ebbe una risonanza così vasta, da provocare una spaccatura interna alla comunità ebraica, divisa fra chi gli credette e lo seguì, e chi invece lo rifiutò e tacciò di eresia. Nel 1651 venne bandito da Smirne e dalla locale comunità ebraica, in sostanza scomunicato. In seguito soggiornò a Gerusalemme raccogliendo intorno a sé i propri seguaci, e poi si insediò a Salonicco, al tempo città ottomana fulcro di una intensa attività cabalistica. Lì iniziò la propria predicazione messianica, e tornò a viaggiare, in Egitto, in Grecia, in Palestina,forte del sostegno di Nathan di Gaza, influente teologo che presto divenne suo profeta – raccogliendo un seguito sempre maggiore con l’avvicinarsi dell’anno 1666, secondo alcuni anno dell’Apocalisse.
Nel 1666 non giunse la fine del mondo ma, denunciato dalla comunità ebraica di Constantinopoli alle autorità ottomane, Sabbati Zevi venne imprigionato come agitatore politico e costretto alla conversione, pena la morte. Commise così il più grave atto per un ebreo: l’apostasia, ripudiando l’ebraismo e abbracciando l’Islam, senza remora alcuna, in piena continuità con la propria filosofia mistica. Molti dei suoi seguaci, sconvolti dalla sua decisione, abbandonarono la setta, e il movimento sabbateo perse rapidamente potere e influenza, riducendosi a una manciata di individui, i Donmeh (“i convertiti), che pur professando pubblicamente la fede islamica, in privato continuarono a praticare l’ebraismo, perpetrando le idee di Zevi.
Per contrastare le idee di Sabbatai Zevi, e impedire che fatti del genere si ripetessero, Ba’al Shem Tov, fondatore del moderno Chassidismo, lentamente aprì la Qabalah e la mistica ebraica non più solo ai rabbini e ai dotti, ma anche al popolo, perché la diffusione di concezioni eretiche non-ortodosse fosse più difficile e impedita in ogni modo possibile. Proprio da questo movimento, nato all’inizio del XVIII sec., si origina quell’attenzione all’ortodossia e alla “corretta interpretazione tradizionale” che ancora oggi caratteristica l’approccio ebraico alla mistica, resa non più un fatto puramente intellettuale, ma anche un’etica precisa, che segna un modo di vedere e avvicinare il Divino, il mondo e ogni individuo.
L’eresia di Sabbatai Zevi

Il tema fondamentale della mistica eretica di Sabbatai Zevi è la redenzione messianica e l’associazione fra il Messia e il Serpente dell’Eden, elementi che la avvicinano in modo drastico allo Gnosticismo cristiano del I sec.
Tutto viene basato sul valore gematrico della parola“Messia” (mashiach), che equivale a quello di “serpente” (nachash), ovvero 358. Poiché secondo la Gematria due parole con lo stesso valore numerico sono fra loro collegate per significato e condividono parte del campo semantico, il Messia e il Serpente dell’Eden vennero correlati. In pieno stile Gnostico, il Messia divenne così una forza spirituale in antitesi con il Cosmo che, attraverso la sua incarnazione e il suo peccato, poi rettificato, avrebbe accelerato l’arrivo della fine dei tempi, cioè la distruzione della Creazione e il suo riassorbimento nella Divinità – in questo modo redimendo il peccato originale, compiuto da Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, quando cercarono la Conoscenza assaggiando un frutto acerbo (o, secondo altre dottrine, compiuto da Eva attraverso l’unione sessuale con il Serpente, ovvero Samael).
Così come il Messia, agente spirituale della redenzione, avrebbe sporcato la propria essenza divina incarnandosi e immergendosi nel peccato, e sperimentando ogni sorta di corruzione per redimerla e santificarla, così al mistico era chiesto di rettificare l’impurità delle scintille divine imprigionate nelle Qliphot, immergendosi nell’Abisso e uscendone trionfante per portare a termine la Tikkun – cioè il recupero di ogni frammento di quella luce divina caduta nella materia o corrotta, e per questo velata nel proprio splendore, per innalzarlo e ricongiungerlo a quel Divino sempre perfetto in se stesso, e trascendente, occulto all’essere umano, ma non al suo Spirito. Questo immergersi nell’Oscurità, per ravvivare la Luce, attuare il Male per operare il Bene, sperimentare il peccato e restare puri, è ciò che l’ebraismo chiama “le doglie del Messia”, ovvero quel periodo di tenebra e confusione che precede la fine dei tempi, il riassorbimento della Creazione nell’Assoluto, un periodo che diventa così non un male, ma la speranza dell’imminente redenzione dell’intero Cosmo.
Idee simili, in particolare il parallelismo fra il Messia e il Serpente dell’Eden, l’unione sessuale di Samael con Lilith e poi con Eva, la necessità di immergersi nel Male e nell’Oscurità per riscoprirvi la Luce e il Bene, e realizzare l’equilibrio, sono temi che ricorrono in un’ampia fetta della Magia Qliphotica moderna, le cui radici tradizionali non possono essere ignorate.Vanno anzi riscoperte, sia quelle che affondano nell’eresia di Sabbatai Zevi, sia quelle che arrivano ancora più indietro, fino allo Gnosticismo, per conoscere l’origine del pensiero che si abbraccia e valorizzarlo. Solo così è possibile non cadere preda delle generalizzazioni e delle semplificazioni, che snaturano il mistero delle Qliphot riducendole ora a una parte “oscura” del Creato, portatrici di un male spesso dipinto con attributi più umani che cosmici, incompreso nella sua natura e nella sua origine.
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